Marco Giuseppe Del Buono, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Aldo Bonaventura, Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, ASST Sette Laghi, Varese
Alessandra Vecchié, Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, ASST Sette Laghi, Varese
Antonio Abbate, Division of Cardiovascular Medicine, Robert M. Berne Cardiovascular Research Center, University of Virginia, USA
L’infiammazione gioca un ruolo chiave nello sviluppo e nella progressione dell’aterosclerosi. In molti pazienti, la presenza di una infiammazione sistemica subclinica verosimilmente contribuisce alla ricorrenza di eventi aterotrombotici, e i biomarker infiammatori possono essere utili a predirne il rischio. Nonostante i progressi nel trattamento della sindrome coronarica acuta (SCA) e l’ottimizzazione di misure di prevenzione secondaria, un “rischio residuo” infatti persiste e circa il 25% dei pazienti presenta un nuovo evento coronarico entro cinque anni dal primo (1-9).
La maggior parte degli approcci terapeutici per ridurre questo rischio residuo si sono focalizzati sull’inibizione piastrinica utilizzando antiaggreganti più potenti o basse dosi di anticoagulanti, e sulla riduzione dei livelli di colesterolo circolante utilizzando farmaci più potenti per ridurre il colesterolo. I dati dagli studi randomizzati recenti hanno dimostrato che il rischio infiammatorio residuo (RIR) può essere misurato utilizzando biomarker di infiammazione sistemica. La definizione di RIR è infatti basata sulla presenza di livelli plasmatici di Proteina C-reattiva secondo metodologia ad alta sensibilità (high sensitivity C-reactive protein, hs-CRP) ≥2 mg/L in assenza di malattie infettive acute o croniche e senza una chiara patologia infiammatoria concomitante che ne possa spiegare l’elevazione dei valori, associata a valori di colesterolo da lipoproteine a bassa densità (low density lipoprotein cholesterol, LDL-C) <70 mg/dL. Questa definizione di RIR non è infrequente rilevarla nei pazienti con pregressa SCA, essendo riportata tra il 29% e il 37% degli studi, e fino al 47% se si considerano livelli di LDL-C meno stringenti (1-9).
È importante riconoscere lo studio pioneristico di Liuzzo e colleghi pubblicato su New England Journal of Medicine che già nel 1994 mostrava che i pazienti con SCA e hs-CRP >3 mg/L avevano una incidenza di nuovi eventi coronarici maggiore rispetto a coloro con hs-CRP <3 mg/L. Numerosi studi hanno confermato il valore predittivo della hs-CRP (10). Nello studio GUSTO IV ACS (Global Use of Strategies to Open Occluded Coronary Arteries IV Acute Coronary Syndrome), che includeva 7800 pazienti con SCA, la troponina e la hs-CRP aveva un valore prognostico indipendente e complementare in termini di mortalità a 30 giorni (9). In modo simile, in un sottostudio del PROVE IT-TIMI 22 (Pravastatin or Atorvastatin Evaluation and Infection Therapy-Thrombolysis In Myocardial Infarction 22) trial, tra i pazienti con recente SCA, quelli con hs-CRP >2 mg/L avevano un rischio doppio di avere eventi avversi a 2 anni (12). I dati suggeriscono che il RIR è associato ad un aumentato rischio di eventi cardiovascolari e pertanto il suo riconoscimento ha aperto il nuovo grande tema delle terapie anti-infiammatorie mirate come nuovo strumento da implementare nell’armamentario terapeutico.
La hs-CRP è facile da misurare, poco costosa, usata su larga scala e consente di quantificare il rischio infiammatorio residuo. La hs-CRP è una proteina di fase acuta che sta a valle della risposta infiammatoria sistemica ed è considerata un surrogato di citochine infiammatorie come l’interleuchina (IL)-1 e IL-6. La terapia con antagonisti del recettore di IL-1 (es. anakinra) sui marcatori di infiammazione nello studio di SCA senza e con sopraslivellamento del tratto ST (MRC-ILA Heart Study e VCU-ART studies) ha dimostrato una diminuzione dei biomarcatori infiammatori dopo 14 giorni di somministrazione di anakinra (11). Negli studi VCU-ART, il trattamento con anakinra riduceva significativamente il rischio di insufficienza cardiaca di nuova insorgenza, ospedalizzazione per insufficienza cardiaca o morte (14,15).
Lo studio in doppio cieco The Canakinumab Antiinflammatory Thrombosis Outcome Study (CANTOS) ha arruolato il più gran numero di pazienti trattati con un bloccante dell’IL-1. Nel CANTOS, 10061 pazienti post-SCA con rischio infiammatorio residuo (hs-CRP ≥ 2 mg/L) sono stati randomizzati ad uno dei tre diversi gruppi di dosi di canakinumab (50 mg, 150 mg e 300 mg, somministrati per via sottocutanea ogni 3 mesi), un anticorpo monoclonale diretto contro IL-1β, o a placebo (16). L'endpoint primario di efficacia includeva infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o morte cardiovascolare, mentre l'endpoint secondario era l'ospedalizzazione per angina instabile che richiedeva una rivascolarizzazione urgente. Sia l'endpoint primario che quello secondario si sono verificati con un tasso più basso statisticamente significativo durante il follow-up di 48 mesi nel gruppo trattato con canakinumab 150 mg, indipendentemente dal controllo aggressivo dei livelli di colesterolo. Canakinumab non ha modificato in modo clinicamente significativo i livelli dei lipidi o della pressione arteriosa, mentre ha comportato una significativa riduzione dose-dipendente dei livelli di hs-CRP (16). In un'analisi secondaria prespecificata, canakinumab ha dimostrato di essere particolarmente efficace tra coloro che hanno ottenuto evidenza di riduzione dell'infiammazione, con la maggior parte del beneficio ottenuto in coloro che avevano raggiunto CRP <2 mg/L. Nello studio CANTOS, canakinumab era associato ad un piccolo ma significativo incremento del rischio di infezioni letali, ma non a causa di infezioni opportunistiche.
Canakinumab, tuttavia, era associato anche ad una riduzione significativa della mortalità per tumori maligni, risultando in un effetto neutro su mortalità non cardiaca (16).
Negli ultimi due anni, due importanti studi randomizzati in doppio cieco, il Colchicine Cardiovascular Outcomes Trial (COLCOT) e il Low-Dose Colchicine (LoDoCo)2, hanno valutato la colchicina a basse dosi nella prevenzione secondaria delle ACS (17-19). La colchicina è un farmaco antinfiammatorio con un ampio spettro d'azione che include l'inibizione dell'inflammasoma NLPR3 e, di conseguenza, l'inibizione della via IL-1β/IL-6/CRP. Nello studio COLCOT sono stati arruolati 4745 pazienti con storia di infarto miocardico nei 30 giorni precedenti e assegnati in modo casuale a colchicina 0,5 mg al giorno o a placebo. È stato dimostrato che il consumo giornaliero di colchicina a basse dosi riduce significativamente gli eventi cardiovascolari durante un follow-up mediano di 22,6 mesi. È interessante notare che gli effetti collaterali come diarrea e polmonite si sono verificati più frequentemente nel gruppo colchicina, anche se la differenza all'interno del gruppo placebo non ha raggiunto la significatività statistica. Allo stesso modo, lo studio LoDoCo2 ha randomizzato 5522 pazienti clinicamente stabili con precedente infarto miocardico a ricevere una dose di colchicina di 0,5 mg al giorno o placebo. Durante un follow-up mediano di 29 mesi, la colchicina ha ridotto significativamente l'endpoint primario, un composito di morte cardiovascolare, infarto del miocardio non procedurale, ictus ischemico o rivascolarizzazione coronarica guidata da ischemia. Simile a COLCOT, la colchicina a basse dosi era ben tollerata e i tassi di eventi avversi erano comparabili tra i due gruppi. Tuttavia, la morte non cardiovascolare è stata più frequente tra i pazienti in trattamento con colchicina, anche se in questo gruppo non è stato rilevato un aumento statisticamente significativo di eventi avversi gravi rispetto al gruppo placebo (17-19).
In conclusione, il RIR persiste in circa un terzo di tutti i pazienti post-SCA, anche nei pazienti trattati con le più potenti terapie antitrombotiche e ipolipemizzanti. Mirare al RIR è di fondamentale importanza in quanto è associato ad un aumento clinicamente rilevante del rischio di infarto miocardico futuro, insufficienza cardiaca, ictus e mortalità per tutte le cause. Bloccanti dell’IL-1 hanno mostrato di poter modulare la risposta infiammatoria e ridurre il rischio cardiovascolare, ma questo è associato ad un piccolo ma significativo rischio di complicanze infettive. Il trattamento con la colchicina dopo SCA sembra essere associato ad una riduzione di ricorrenze cliniche e mortalità con un tasso di complicanze accettabili. Ulteriori studi sono necessari per aiutare ad identificare meglio i pazienti che potrebbero beneficiare maggiormente delle terapie immuno-modulatorie, quali terapie usare e come e per quanto tempo, e determinare se nuove terapie mirate possono essere sviluppate, promuovendo così un approccio di medicina personalizzata al RIR dopo SCA.
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