New Engl J Med. 2020 Dec 31;383(27):2628-2638
Alessandro Tomelleri, U.O. di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano
Gli autori di questo studio - utilizzando un approccio genotype-driven - sono andati innanzitutto a ricercare in un database di 2.560 pazienti affetti da febbri periodiche e malattie non ancora diagnosticate conservato nel National Institutes of Health (NIH), casi di mutazioni condivise da più pazienti. In questo modo hanno identificato tre pazienti di sesso maschile portatori di una mutazione nel gene UBA1, sul cromosoma X. UBA1 codifica il principale enzima E1 necessario per l'inizio dell'ubiquitilazione, un tipo di modificazione post-traduzionale utilizzata per regolare la segnalazione intracellulare e la degradazione delle proteine. Questi primi tre pazienti avevano tutti sviluppato gravi sindromi infiammatorie associate ad anomalie ematologiche progressive e, a partire da questa osservazione, mutazioni nel medesimo gene sono state riscontrate in ulteriori 22 pazienti che presentavano un quadro clinico molto simile. In questi pazienti, le mutazioni sono state riscontrate in più della metà delle cellule staminali ematopoietiche, comprese le cellule mieloidi del sangue periferico ma non i linfociti o i fibroblasti.
Tutti i pazienti erano uomini e l'età media all'esordio della malattia era di 64 anni. Dal punto di vista clinico, gli elementi ricorrenti erano rappresentati da febbre (92%), interessamento cutaneo (88%), infiltrati polmonari (72%), condriti dell'orecchio o del naso (64%), eventi tromboembolici venosi (44%). Dal punto di vista degli esami di laboratorio, vi era un’elevazione significativa degli indici di flogosi, oltre ad anemia macrocitica e piastrinopenia. Un altro elemento tipico era la presenza di vacuoli nelle cellule precursori mieloidi ed eritroidi midollari. La prognosi di questi pazienti era perlopiù negativa, tanto che il 40% di loro era deceduto al momento dello studio; trattamenti con vari farmaci anti-citochinici erano stati tentati, senza però un beneficio clinico. A partire da queste osservazioni, gli autori hanno definito una nuova malattia, dandole il nome di sindrome VEXAS (vacuolo, enzima E1, X-linked, autoinfiammatoria, somatica).
È molto interessante notare inoltre come la maggior parte dei pazienti inclusi nello studio soddisfaceva criteri diagnostici o di classificazione per varie sindromi infiammatorie e/o condizioni ematologiche, tra cui policondrite recidivante, sindromi mielodisplastiche, poliarterite nodosa e arterite a cellule giganti. A partire da questa osservazione, è possibile ipotizzare che vi siano altri pazienti erroneamente diagnosticati con una patologia infiammatoria/ematologica tradizionale e che invece sono affetti da VEXAS, in particolare pazienti con forme spurie, scarsa risposta al trattamento e prognosi infausta.
Dopo questo primo, rivoluzionario, studio, sono stati pubblicati altri report e la casistica di pazienti con la sindrome VEXAS sta crescendo rapidamente. L’obiettivo, a questo punto, è quello di sfruttare la comprensione delle basi molecolari di questa malattia per arrivare alla scoperta di nuovi paradigmi di trattamento, che potrebbero includere terapie di editing genetico e trapianto di midollo osseo.